Non si può gestire quello che non si può misurare*
“La responsabilità sociale d’impresa (o Corporate Social Responsibility CSR) dovrebbe orientare tutte le scelte aziendali e rientrare nella strategia di ogni impresa”: lo pensa il 63% degli italiani secondo una ricerca condotta nel luglio 2013 da Ipsos. Probabilmente le successive domande da porsi sono “quanto ne siano convinte le imprese stesse?” e “quali motivazioni le possono spingere ad adottare nella pratica comportamenti coerenti con questo approccio?”.
In risposta alla prima delle domande, analizzando i risultati di una ricerca condotta dalla Commissione Europea conclusasi nel 2013 su un campioni di 200 aziende multinazionali europee di grandi dimensioni (con più di 1000 dipendenti), riscontriamo che circa il 68% delle stesse applica, tra le proprie politiche aziendali, dei principi in qualche modo riconducibili a quelli della sostenibilità, ma che solo un terzo del totale lo fa in modo strutturato ed in qualche modo documentabile (ad esempio seguendo i principi internazionali dettati dal Global Reporting Initiatives). Personalmente ritengo che una parte delle imprese sia mossa da sincera convinzione sulla possibilità di integrare la logica di profitto con i principi della Responsabilità Sociale; certamente un’altra parte di queste può essere mossa anche dal confronto con i concorrenti: la creazione di un circolo virtuoso può sicuramente stimolare in tempi brevi una maggior diffusione di pratiche sostenibili per rispondere da un obbligo dettato dalla competizione.
In tal senso, si possono ricordare i risultati – annunciati lo scorso 12 settembre – del Dow Jones Sustainability Index (DJSI), che raccoglie le aziende con i migliori investimenti nella sostenibilità aziendale e nella social responsability. Se da un lato tutti conoscono il Dow Jones come il più importante indice della borsa di New York, il meno noto Dow Jones Sustainability Index è uno dei primi indici globali, lanciato nel 1999, a registrare le performance finanziarie delle aziende che applicano criteri di sostenibilità. Si basa su una cooperazione degli indici Dow Jones, STOXX Limited e SAM, e fornisce un benchmark riconosciuto ed obiettivi dei profili di sostenibilità delle aziende. Probabilmente anche a molti di voi, come al sottoscritto, genera un certo scetticismo l’associazione dei termini (Dow Jones e Sustainability), che per retaggio socio-economico sembrano appartenere a due mondi così distanti da sembrare inconciliabili. Far conciliare lo shareholder value – di cui il Dow Jones rappresenta uno dei principali indicatori – con lo stakeholder value – punto focale della visione di responsabilità sociale di matrice europea – in prima analisi può apparire come cercare di mescolare l’olio con l’acqua. Sicuramente, a ben guardare, negli ultimi anni si è diffuso il concetto che scelte sostenibili realizzano valore a lungo termine anche per gli azionisti. Inoltre rientrare nel Dow Jones Sustainability Index è emerso essere un concetto molto ben “rivendibile” per le aziende nei confronti dei propri investitori, sempre per rimanere in campo finanziario. Non a caso, a ben guardare, il simbolo del Dow Jones Sustainability Index è rappresentato proprio da due circonferenze parzialmente sovrapposte, quasi a rappresentare che le due visioni – apparentemente dicotomiche – tra shareholder e stakeholder value, se analizzate dalla giusta prospettiva, presentano dei caratteri di convergenza. Non a caso il concetto di “Shared Value” (convergenza tra interessi degli azionisti e quelli degli altri stakeholder) è stato formalizzato alla fine del 2010 da famosi studiosi di management aziendale quali Michael Porter e Mark Kramer ed esposto successivamente nel 2011 da Harvard Business Review.
Il DJSI ha classificato 59 categorie di industrie e ne ha analizzate in tutto il mondo 2500. I principali criteri considerati per la valutazione e l’attribuzione del punteggio finale sono: la Climate Strategy, lo Stakeholder Engagement, la gestione del prodotto, l’efficienza energetica e ambientale, la stabilità finanziaria e la corretta gestione dei rischi economici. Sono 11 le aziende italiane incluse tra le aziende più sostenibili, alcune addirittura leader dei propri settori di appartenenza, altre stabilendo un punteggio migliore rispetto gli anni passati. Ad esempio Snam (gruppo integrato che presidia le attività regolate del settore del gas in Italia) è stato confermato per il quinto anno consecutivo nell’elenco con un miglioramento del posizionamento complessivo (82 punti), che la avvicina al punteggio migliore del settore gas utilities (88 punti). Altre aziende italiane incluse nell’ indice sono Enel, Eni, Terna, Fiat, Fiat Industrial, Pirelli, Atlantia, Finmeccanica, Telecom italia, Intesa San Paolo.
Un altro strumento utilizzato spesso dalle aziende per comunicare il proprio impegno sostenibile è quello della rendicontazione non- finanziaria e nello specifico del bilancio di sostenibilità. Tali bilanci sono documenti pubblicati dalle aziende su base volontaria in cui sono rendicontate le performance non-finanziare conseguite secondo strutture e con l’utilizzo di indicatori scelti dalle aziende medesime. Da circa una decina di anni, come standard internazionali, si sono imposte le guidelines proposte dalla Global Reporting Initiatives. Tuttavia tali linee guide sono spesso state oggetto di critiche dagli addetti ai lavori, giudicate autoreferenziali in quanto la soggettività della loro applicazione rende spesso difficoltosa la comparazione delle performance di diverse aziende.
Nonostante l’impegno profuso dalle aziende nel raccogliere, organizzare e comunicare le proprie performance, permangono dunque difficoltà di comparazione dei risultati ottenuti. Le cause che condizionano negativamente la confrontabilità dei risultati sono riconducibili a unità di misura differenti per lo stesso fenomeno, diverso significato attribuito agli indicatori, differenze di classificazione, utilizzo di formule disomogenee di calcolo, modalità di ponderazione. Istat e CSR Manager Network hanno condotto un progetto, conclusosi nel 2013, in collaborazione con primarie aziende Italiane (Autogrill, Bureau Veritas, Enel, Generali, Hera, Holcim, Obiettivo Lavoro, Pirelli, San Pellegrino, Terna, Unipol, Vodafone e Gucci), con l’obiettivo di colmare questo gap. Il risultato ottenuto è stato quello di armonizzare, ove possibile, i dati contenuti nei bilanci di sostenibilità delle imprese con quelli elaborati dall’Istat e di promuovere presso le imprese metodi per la rendicontazione non finanziaria basati sull’uso di dati che siano effettivamente confrontabili con quelli di altre imprese e con quelli delle statistiche nazionali. Il progetto di ricerca ha individuato dieci indicatori di sostenibilità, in linea con i dati della statistica ufficiale, da riportare nei bilanci volontari delle imprese. Ecco di seguito i dieci indicatori:
1. Valore economico diretto generato e distribuito dalle imprese; con l’obiettivo di definire quali aziende danno un contributo maggiore alla produzione di ricchezza nazionale.
2. Consumo diretto di energia suddiviso per fonte energetica primaria; con l’obiettivo di identificare le aziende più efficienti sul piano energetico.
3. Spese e investimenti delle imprese per attività di protezione dell’ambiente, suddivise per tipologia; con l’obiettivo di identificare quali imprese destinano maggiori risorse alla tutela ambientale, nonché per una valutazione del valore nel lungo periodo dei propri investimenti organizzativi o tecnologici.
4. Emissioni totali dirette ed indirette di gas ad effetto serra; con l’obiettivo di fornire una quantificazione oggettiva del problema anche al fine di tarare correttamente eventuali regolamentazioni a livello nazionale o internazionale legate alle quote di emissione.
5. Composizione dei dipendenti per tipologia di contratto di lavoro; con l’obiettivo di comprendere con chiarezza come le aziende strutturano l’organizzazione della forza lavoro e con quale grado di stabilizzazione, facendo specifico riferimento alle caratteristiche del rapporto di lavoro (per esempio: apprendistato, lavoratori a domicilio, stagionali) e la relativa variazione nel tempo.
6. Turnover del personale e tasso di nuovi dipendenti assunti, suddivisi per età, sesso e area geografica; con l’obiettivo di rilevare le imprese in grado di fidelizzare le proprie risorse umane e di cogliere il livello di soddisfazione/malcontento tra i dipendenti.
7. Ore medie di formazione annue per dipendente; con l’obiettivo di dare conto del monte orario destinato annualmente dall’impresa ai dipendenti, per singole categorie di lavoratori e per sesso.
8. Rapporto dello stipendio base di uomini e donne; con l’obiettivo di dare conto dell’equità delle remunerazioni tra uomini e donne a parità di livello e mansione.
9. Tasso di rientro post-maternità; con l’obiettivo di far emergere eventuali variazioni nelle condizioni dei lavoratori prima e dopo la nascita del figlio.
10. Numero di violazioni per discriminazioni sul luogo di lavoro; con l’obiettivo di dare conto di episodi legati a pratiche discriminatorie e delle relative azioni intraprese per una gestione responsabile.
L’implementazione di questi indicatori rende possibile dunque il confronto delle performance rispetto a quelle dei propri concorrenti mantenendole al tempo stesso allineate ai dati nazionali elaborati dall’Istat. Gli stakeholder possono quindi valutare in modo ponderato l’impegno delle aziende e premiare quelle più sostenibili, monitorando i cambiamenti delle performance nel corso del tempo. Le imprese, d’altro lato, al loro interno hanno a disposizione gli strumenti per controllare le variabili da gestire e sviluppare piani di miglioramento più efficaci, grazie ad una capacità di misurazione più puntuale e ad un confronto più trasparente con i propri concorrenti. Gli strumenti e gli indicatori ora non mancano (con buona pace di Robert Kaplan citato nel titolo), speriamo non si faccia attendere il commitment delle aziende e dei singoli.
L’articolo è stato scritto dall’ing. Stefano Milanese consulente dello STUDIO MILANESE
*citazione di Robert Kaplan